Roberto Ciufoli: amo il paradosso, l’iperbole e la comicità surreale
Roberto Ciufoli, foto di A. D'Agostino

Roberto Ciufoli: amo il paradosso, l’iperbole e la comicità surreale

27 Marzo 2024

Lo abbiamo conosciuto ed è diventato popolare grazie alla Premiata Ditta, ma Roberto Ciufoli è anche molto di più e ne ha dato dimostrazione in tutti questi anni misurandosi individualmente con le diverse espressioni dello spettacolo e dell’arte della recitazione.

Ha fatto della sua idea di comicità surreale e delle lezioni dei suoi illustri modelli il proprio bagaglio umano e professionale.

Una valigia, la sua, che ha portato e che continua a portare in giro per i palcoscenici di tutta Italia.

Uno di questi è quello di Cortinametraggio, la storica e prestigiosa kermesse fondata da Maddalena Mayneri dedicata alla produzione breve nazionale e internazionale, che da qualche anno ha il piacere di vivere nelle vesti di conduttore.

Roberto Ciufoli: amo il paradosso, l’iperbole e la comicità surreale
Roberto Ciufoli, foto di A. D’Agostino

Ed è qui, nella manifestazione cinematografica che da diciannove edizioni si tiene all’ombra delle Dolomiti, nella splendida cornice di Cortina D’Ampezzo, che abbiamo incontrato l’attore romano, cogliendo l’occasione per rivolgergli alcune domande sulla sua carriera.    

Roberto Ciufoli, cosa significa per lei recitare ed essere un attore?

“La recitazione è la possibilità di fare un viaggio nel mondo di qualcun altro, mettendosi in una posizione di ascolto e portandosi dietro le proprie esperienze.

Personalmente credo che interpretare un personaggio significhi ascoltare quello che il personaggio stesso ti sta proponendo.

Il ché vuol dire liberare uno spazio per fare entrare il personaggio e non viceversa.

Ma anche fare in modo che tutto ciò che puoi capire attraverso di lui possa essere rappresentato e rappresentabile.

In tal senso io attore devo fare arrivare a te che guardi le emozioni che sto comunicando.

Se a te spettatore non riesco a trasmettere nulla, allora non sto facendo bene il mio lavoro”. 

Quali sono le emozioni che la attraversano quando ha la possibilità di esibirsi davanti a una platea?

“Quando superi la quinta ed entri in palcoscenico diventi un supereroe, diventi un’altra cosa.

È il momento in cui hai il maggiore controllo di te.

Se prima eri malato non lo sei più, non senti più gli acciacchi e anche i sensi che normalmente hai è come se si moltiplicassero.

Il pubblico lo avverti e c’è uno scambio di energia fortissimo, tanto da arrivare a respirare all’unisono.

Quella è una situazione unica e meravigliosa che svanisce immediatamente appena scendi dal palco e torni alla vita reale”.   

Roberto Ciufoli: amo il paradosso, l’iperbole e la comicità surreale
Roberto Ciufoli, foto di A. D’Agostino

Che genere di comicità predilige?

“Mi è sempre piaciuto il paradosso, così come l’iperbole, ma soprattutto quella comicità surreale capace di modificare la realtà e il senso, che si può ritrovare nei fratelli Marx, in Woody Allen o nei Monty Python.

Diversamente non sopporto e non mi è mai piaciuta la comicità volgare fine a se stessa.

Personalmente ritengo che anche in quel caso ci debba essere sempre un’eleganza da rispettare.

Ecco allora che il limite lo dà il buon o cattivo gusto.

Adoro le battute e le gag che hanno dietro una costruzione mentale, ma anche quella naturalezza e spontaneità che ti guidano nel percorso di improvvisazione”.   

Roberto Ciufoli, qual è stato secondo lei il segreto della longevità e del successo della Premiata Ditta?

“Credo che risiedeva nelle diversità dei quattro componenti e nei rapporti che c’erano e ci sono ancora oggi tra di loro.

Quando si dice Dio li fa e poi li accoppia, perché magari hanno interessi, scopi e approcci simili.

Ma le persone quando sono così simili in realtà risultano essere profondamente diverse, che si completano grazie ai rispettivi caratteri.

E questo a mio avviso è il segreto che c’è dietro le unioni affettive e amicali durature, che poi è quello che è successo a noi quattro.

Faccio l’esempio del mio amico stretto Pino Insegno: con lui siamo all’opposto, dai segni zodiacali alla fede calcistica e alle posizioni rispetto ad argomentazioni varie, eppure ci si vuole bene da cinquant’anni.

Idem con Tiziana Foschi e Francesca Draghetti.

Poi insieme siamo stati e ora lo siamo diventati ancora di più dei parenti, come una famiglia allargata.

Tutto questo ha consolidato il legame che ci ha unito, al netto di discussioni e confronti anche animati che però non sono mai arrivati al punto di mettere in discussione o distruggere il rapporto”.

Cosa quello storico quartetto ha lasciato in eredità?

“All’epoca non ci siamo di certo inventati la comicità, ma un modo di farla, che non veniva da una formazione accademica.

Il ché ha rappresentato sicuramente un limite per noi, ma allo stesso tempo ci ha donato il beneficio della purezza dell’invenzione.

Non c’era un si fa o non si fa così, bensì un si fa come ci viene.

Cioè non avevamo sovrastrutture, piuttosto una serie di fonti d’ispirazione legate a un tipo di cultura dalla quale ci siamo abbeverati nel percorso di formazione e durante le prime esperienze sul palcoscenico, come ad esempio quelle al fianco di un grandissimo artista come Gino Bramieri.

Da figure come la sua e di altri mostri sacri come Walter Chiari abbiamo preso spunti e imparato tanto.

Di nostro invece c’erano tantissime idee, le stesse che poi abbiamo messo sul piatto.

Alla fine si sono rivelate rivoluzionarie rispetto a un modo di fare e concepire la comicità, in primis perché presentava dei caratteri inediti per gli anni Novanta e i primi Duemila.

Quindi il conoscere quello che c’è stato prima è stato fondamentale ed è servito al nostro ensemble per aggiungere qualcosa di diverso e di nuovo.

Qualcosa che prima non c’era e al quale in molti delle generazioni successive si sono ispirati”. 

C’è una performance, un personaggio o un lavoro che più di ogni altro è andato oltre le sue aspettative?

“Se devo pensare al lavoro che è andato al di sopra delle mie aspettative il ricordo non può non andare alle prime esibizioni da solo in scena.

Abituato a farlo sempre in gruppo e a doversi equilibrare con dei colleghi, prima con la nutrita compagnia L’allegra brigata e poi con la Premiata Ditta, quando è accaduto di esibirmi individualmente ho provato una grandissima emozione e mi è piaciuto tantissimo.

Anche in quelle occasioni ho avuto la possibilità di confrontarmi con la commedia, che è un campo nel quale mi muovo con disinvoltura, oltre che con il drammatico con testi intensi e importanti che non richiedevano invece l’appoggio degli spettatori dato che le battute non erano rivolte a loro.

Tutto questo mi è servito anche a livello umano, perché ancora di più ha sottolineato quella che è una mia caratteristica, ossia la necessità di mettermi in gioco in qualche modo e di affrontare delle nuove sfide”.   

Nella sua carriera ha potuto misurarsi con le diverse espressioni della recitazione, ma da quale o quali di queste ha avuto maggiori soddisfazioni professionali e umane?

“In generale sono molto soddisfatto di quanto ho fatto nell’arco della mia carriera sino ad oggi, in particolare sul palcoscenico, perché a teatro ho avuto la fortuna e il lusso di affrontare generi totalmente differenti: dal musical come avvenuto recentemente al monologo, passando dalla commedia che è stata il pane quotidiano alle esperienze serie e impegnative come quelle sui testi di Bertolt Brecht e gli spettacoli di Ronconi a Il Piccolo di Milano.

Anche in televisione, individualmente e con la Premiata Ditta, ho potuto spaziare moltissimo.

Cosa che invece non ho potuto fare al cinema, perché ritengo che quello italiano sia stretto e chiuso in un settore raccolto e pigro che non ha curiosità di andare a cercare in altri ambiti, specialmente nel teatro.

Ho visto raramente produttori, registi o casting director seduti in platea, quando invece penso che possa essere un buon vivaio dove andare a cercare nuove espressioni.

E quindi quello che mi è mancato e che mi sarebbe piaciuto farne molto di più di quello che ho fatto è proprio il cinema”.

A che punto della carriera pensa di essere arrivato e cosa manca all’appello?

“A una maturità artistica che mi piace, che mi soddisfa, mi rasserena e nella quale mi coccolo, perché penso di essere arrivato a un punto in cui riesco, dopo averlo codificato, a comunicare e a trasmettere ad altri quello che ho appreso soltanto sul campo e non da una scuola.

Ci sono stati ovviamente lungo il percorso anche dei passi falsi, ma in generale sono felice delle scelte che ho fatto e che mi hanno portato sino a qui.

Sono contento di quello che è stato e di anche di quello che sarà, perché sento di avere ancora tanto da fare e da dire che non ho nessuna intenzione di fermarmi”.

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