Lavrente Indico Diaz, in arte Lav Diaz, è un regista, sceneggiatore, produttore, e attore filippino nato nel 1958.
Considerato uno dei registi più originali del panorama cinematografico d’essai contemporaneo ha raccontato nella sua filmografia con crudezza e profondo lirismo i capitoli più bui della storia del suo Paese.
Dal 1998 ha diretto diciotto lungometraggi e ottenuto diversi riconoscimenti internazionali come il premio per il Miglior Film al Festival di Singapore per Batang West Side (2001), il premio Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia per Death in the Land of Encantos (2007) e per Melancholia (2008), il Pardo d’Oro al Festival di Locarno per From What is Before (2014), l’Orso d’Argento per A Lullaby to the Sorrowful Mystery al Festival di Berlino del 2016 e il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia per The Woman Who Left (2016).
Insomma un palmares e un corpus di opere di tutto rispetto, al quale più di recente si è andato ad aggiungere un altro importante tassello dal titolo When the Waves Are Gone, un film di genere che tesse la tela narrativa e drammaturgica tra il poliziesco e il thriller, anch’esso presentato alla prestigiosa kermesse lidense.
Dialogare con lui nel corso del 33° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, laddove ha presieduto la giuria internazionale e ha accompagnato una piccola retrospettiva dei suoi film, è stata una grandissima opportunità che abbiamo voluto condividere con i nostri lettori.
C’è un elemento che più di tutti ricopre un ruolo chiave nel suo cinema?
“La geografia e le topografie hanno sicuramente un’importanza fondamentale nel mio lavoro.
Quando vedo un luogo che mi suscita il desiderio di creare un universo o un microcosmo inizio a mapparlo e a pensare come mettere in scena le azioni e i movimenti delle persone che lo popolano.
Devo esserne attratto al punto tale da volerci ambientare una storia e arrivare a trascorrerci anche dei mesi interi durante i quali scrivo e giro il film di turno.
Lo spazio e le location sono dunque degli elementi chiave del mio cinema.
E questi nella stragrande maggioranza dei casi vado a cercarli lontano da Manila, dall’urbanizzazione e dalle grandi città.
Spesso sono in villaggi remoti o una delle centinaia di isole che vanno a comporre l’arcipelago delle Filippine.
Ad attrarmi e a farmi scegliere un luogo piuttosto che un altro possono essere dei suoni, dei profumi, piuttosto che le memorie, le tradizioni e il passato di quelle regioni.
E il plot e le storie vengono a galla quasi in maniera naturale respirando e abitando quelle zone, vivendole per dei periodi di tempo durante i quali ne respiro l’aria, osservo cosa accade quotidianamente e ascolto i racconti delle persone che ti parlano di come gestiscono la loro esistenza, del rapporto che hanno con la natura e persino di come fanno l’amore.
Tutto questo è una grandissima fonte d’ispirazione per me.
Così facendo cerco di restituire allo spettatore una sensazione di immersione in quei luoghi e la vita nella sua totalità, perché per me fare un film non significa soltanto raccontare una vicenda ma anche il contesto all’interno della quale questa si sviluppa”.
Mr. Lav Diaz, che tipo di rapporto ha con gli attori e chi sono? Chiedo questo perché molti di essi infatti sono dei volti ricorrenti e delle presenze costanti nel suo cinema e chi ha familiarità con i suoi film avrà avuto modo di incontrarli più volte.
“Lavoro principalmente con persone che capiscono e accettano il mio modus operandi che si basa soprattutto sul processo di attesa legata al processo di riscrittura continua.
Può capitare infatti che le riprese si interrompano per un periodo durante il quale si rielaborano delle scene o si riscrivono delle battute.
Solo quando è tutto in ordine allora si può riprendere a girare.
Motivo per cui quando nel cast si aggiungono dei nuovi interpreti permettiamo loro di sperimentare ed entrare nel meccanismo che lo regola.
L’attesa in generale è un elemento molto importante nella mia cultura e nel Paese dal quale provengo.
Ha a che vedere anche con una dimensione spirituale e metaforica.
Ecco perché diventa un fattore chiave del mio cinema, così come la libertà.
Ne lascio infatti moltissima ai miei interpreti, che possono così tra un ciak e l’altro muoversi liberamente e fare proposte. Spiego loro cosa voglio e poi sono liberi.
In generale giro scene molto lunghe e piani sequenza.
Gli attori chiamati in causa, una volta comprese le traiettorie narrative del racconto e il percorso dei rispettivi personaggi, arrivano a recitare in completa autonomia e a gestirsi da soli sul set e all’interno della scena. Non sono rigido e autoritario in tal senso”.
In molti dei suoi film, a cominciare da Death in the Land of Encantos, è presente la figura del poeta e dello scrittore. Ma qual è il suo rapporto in generale con le arti e con la letteratura in particolare?
“Io sono cresciuto in montagna con le comunità indigene in un luogo desolato e isolato nella parte meridionale delle Filippine.
I miei genitori leggevano molto, in particolare mio padre che da appassionato di letteratura aveva una vasta collezione di libri di scrittori russi, da Dostoevskij a Tolstoj, passando per Puškin.
Io mi limitavo ad ammirare e sfogliare le pagine di quei volumi senza però leggerli perché non ero ancora in grado di capire cosa ci fosse scritto.
Ma ne ero comunque affascinato.
Quando poi sono andato prima al liceo e poi all’università ho iniziato a leggere e ad approfondire la narrativa e le poesie di questi autori, che sono così entrati a fare parte della mia formazione e della mia vita in generale.
Probabilmente è per questo motivo che per me girare un film è un po’ come scrivere un romanzo o una poesia in versi.
È lo stesso tipo di processo.
Quando realizzo un film mi ritrovo a scrivere continuamente, addirittura mi sveglio la notte per sistemare e risistemare le scene e i dialoghi che realizzerò il giorno dopo.
Il processo creativo del mio cinema inizia e si sviluppa con e intorno alla scrittura, a cominciare dal ritmo e dalla misura sillabica.
A volte non seguo una certa scansione cronologica, ma preferisco lavorare all’inverso continuando a revisionare e modificare l’ordine degli eventi narrati e le battute dei personaggi.
Questo perché attribuisco grandissima importanza al realismo di quello che i protagonisti dei miei film dicono, pensano e fanno.
Ci tengo moltissimo e mi batto sempre aspramente per fare in modo che le parole che vengono pronunciate nelle mie opere siano le più giuste e veritiere possibili”.
Mr. Lav Diaz, lei è conosciuto per la lunghezza dei suoi film che possono arrivare a superare anche le dieci ore come nel caso di Evolution of a Filipino Family e per gli interminabili piani-sequenza che ne contraddistinguono lo stile filmico.
Perché ha fatto proprio del concetto di tempo e di spazio il punto fermo del suo cinema?
Ciò non può rappresentare un limite e costituire un problema in termini di veicolazione e distribuzione?
“Nel mio cinema cerco per quanto mi è possibile di non manipolare l’unità di spazio e tempo, mantenendola intatta e preservandola.
Il che mi porta a non utilizzare quasi mai un montaggio alternato o con punti di vista molteplici.
Ecco che la durata di una scena è la durata naturale di un evento, così come le azioni compiute dai personaggi sono fisiologiche e rispettano il suddetto timing.
Questo porta di riflesso i miei film ad essere nella maggior parte dei casi molto lunghi per quanto concerne il minutaggio.
Mi rendo conto perfettamente e sono cosciente del fatto che il tutto non si sposa con le esigenze e le logiche commerciali dell’industria e del sistema mainstream vigenti, ma questo è il linguaggio cinematografico che mi appartiene, che non può prescindere dal tempo e dallo spazio, attraverso il quale tento, a mio modo, di sovvertire le convenzioni.
All’inizio della carriera ho sperimentato la maniera convenzionale di fare cinema dirigendo quattro film in 35mm montati con numerosi tagli che seguivano alla lettera i diktat e le regole classiche.
Ma quello non era il cinema che mi interessava e ho deciso che non volevo più limitare me stesso a quel tipo di linguaggio.
Per fortuna da anni ho un gruppo di lavoro, dei produttori e tanti spettatori che condividono, supportano e sposano questo mio modo di fare e concepire la Settima Arte.
Sicuramente l’avvento del digitale ha aiutato e favorito questo mio processo di emancipazione e di liberazione”.
In un’epoca come questa, crede che attraverso il cinema si possa parlare di politica liberamente e senza costrizioni?
“La Settima Are è sicuramente uno dei veicoli più potenti per quanto concerne lo scambio tra esseri umani.
Tutte le culture possono interagire e interconnettersi attraverso questo mezzo.
E quando si tratta di tematiche legate al dialogo tutto il cinema, e con esso le immagini e i suoni di cui si compone, diventa un atto politico.
Credo che per ogni artista responsabile sia impossibile evitare di parlare di politica o essere esso stesso politico.
In tutti i film tu autore cerchi di stabilire un dialogo tra te e le argomentazioni che decidi di affrontare, tra te e il pubblico, ma più in generale tra te e la vita, nel modo in cui noi individui, comunità, società e sistema disfunzionale ci rapportiamo ad essa.
In tal senso si può essere cinici, anarchici e punk oppure molto cauti ed essenziali nell’approccio.
Io mi muovo in entrambe le direzioni: a volte sono estremamente diretto nel dire e nel mostrare, altre invece c’è una sottigliezza che accompagna la mia dialettica con il messaggio che va ricercato tra le righe e oltre le immagini.
La mia aspirazione, che poi è anche quella di tanti che fanno il mio mestiere, è quella di riuscire a fare passare attraverso le opere dei messaggi importanti.
Spero in tutti questi anni di esserci riuscito, ma questo solo coloro che le hanno viste possono confermarlo o smentirlo”.
Mr. Lav Diaz, quando come cineasta e cittadino del mondo ha deciso di esporsi politicamente con i suoi film o con le sue parole, che tipo di risposte ha ricevuto in termini di feedback?
“In realtà non sai mai quale può essere il vero effetto delle tue affermazioni e delle tue azioni.
Per esempio se decidi di partecipare a una manifestazione non sai quale o quali possono essere le conseguenze.
È tutto frutto della casualità e, nella peggiore delle ipotesi, puoi essere attaccato dalla polizia o ricevere un ordine restrittivo.
Lo stesso accade nel discorso cinematografico, se ciò che hai deciso di dire e mostrare può avere un effetto grande in termini di proporzione o al contrario più contenuto.
Non puoi sapere prima quali potranno essere le conseguenze, semmai puoi immaginarlo o prevederlo.
Non puoi sapere se verrai accusato di essere troppo di parte e fazioso oppure distante ed eccessivamente neutrale.
Tutto dipende da come il pubblico guarderà e interpreterà il tuo lavoro. In entrambi i casi bisogna comunque rispettare quella che è la prospettiva e il pensiero individuale”.
Qual è la sua percezione della Storia e che rapporto ha il suo cinema con essa?
“Non dobbiamo dimenticare il passato e le sue lezioni.
Dirlo può sembrare un cliché, ma è la verità.
Se non lo si affronta e non ci si fa i conti, non è possibile andare avanti e vivere il presente in vista del futuro.
Non si può proseguire un percorso esistenziale se non si scende a patti con il proprio vissuto.
Lo stesso discorso è valido su una scala più ampia, collettiva e non solo individuale.
Siamo tutti il risultato di ciò che è stato.
Ricordare le cose è importantissimo, perché la memoria è una cura in grado di guarire e di riportare sulla retta via.
Il cinema, compreso quello che porta la mia firma, è un vasto affresco della vita che parla sempre del presente, ma al contempo resta un riflesso del passato che si confronta continuamente con esso attraverso una rilettura politica, culturale, sociale e anche psicologica degli eventi.
Personalmente la Storia che provo a portare sul grande schermo non è quella dei grandi personaggi, bensì quella che ha come protagonista persone comuni che in un modo o nell’altro subiscono le conseguenze delle figure al potere o degli eroi che sono sullo sfondo.
Sicuramente si tratta di una scelta cosciente che vede il mio lavoro e il modo di fare e concepire la Settima Arte ancorarsi a certi periodi della Storia.
Quella del mio Paese, le Filippine, è parte integrante di quella mondiale e dunque raccontarla ha una valenza universale.
Ecco perché il pubblico alle varie latitudini riesce ad abbracciare e comprendere i miei film.
In questi non vanno in scena solo le lotte dei filippini, ma degli esseri umani in generale.
È sufficiente cancellare la razza e automaticamente quella alla quale si assiste è la lotta di tutti, anche la tua”.
Mr. Lav Diaz, c’è un film in particolare tra quelli che ha diretto in cui il suo pensiero riguardo al valore del tempo, del passato e della Storia si rispecchia e trova maggiori corrispondenze?
“Probabilmente From What is Before.
È una pellicola del 2014 nel quale racconto gli effetti devastanti della svolta autoritaria della dittatura di Ferdinand E. Marcos sulla quotidianità degli abitanti di un piccolo villaggio nel nord delle Filippine.
In quel film ricordo ciò che è accaduto nel mio Paese quando venne estesa la legge marziale all’intera nazione.
Nessuno all’epoca poté immaginare l’enorme cataclisma che si stava per abbattere su tutti noi, men che meno io che all’epoca ero un bambino di dieci anni.
Ho provato a rievocare quel periodo di terrore attraverso gli occhi di un giovane uomo che stava vivendo quei momenti.
Quello è stato veramente un passaggio oscuro della Storia e quanto sta accadendo ora in Ucraina me lo ricorda moltissimo.
Riprova che l’umanità non riesce proprio a imparare dai propri errori, continuando a ripeterli ciclicamente”.
E come lei e il suo cinema si rapportano invece con il futuro?
“Il cinema ti consente di arrivare a creare persino degli universi, ma il futuro è qualcosa di diverso e di più complesso.
Si possono intuire e ipotizzare quali possono essere le conseguenze di certe azioni, si può immaginare ciò che verrà, ma non lo si può presagire.
E questo è il limite oltre il quale la Settima Arte e chi come me ne ha fatto un mestiere non si può spingere.
Ciononostante esiste una forma di saggezza che si impara dal passato e che sulla carta dovrebbe in qualche modo aiutare a non commettere gli stessi errori, ma come ho detto in precedenza nostro malgrado ciò accade solo di rado.
Le guerre ne sono la dimostrazione”.
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