La caldissima estate festivaliera ci ha portato in quel di Porto Santo Stefano per la settima edizione del Pop Corn Festival del Corto.
Questa kermesse internazionale è dedicata alle produzioni audiovisive sulla breve distanza.
Diretta da Francesca Castriconi, è organizzata dall’Associazione Argentario Art Day APS con il contributo e il patrocinio del Comune di Monte Argentario e della Regione Toscana.
Numerosi anche quest’anno gli ospiti che si sono avvicendati sul palco della suggestiva arena a cielo aperto allestita in Piazzale dei Rioni.
A fare da cornice il porto con la sua immancabile sfilata di imbarcazioni e yacht battenti bandiera tricolore e provenienti dalle diverse latitudini.
Nell’elegante e colorato backstage, a margine della serata che l’ha vista protagonista, abbiamo incontrato e intervistato una delle ospiti di punta della manifestazione, ossia l’attrice e regista Yvonne Sciò.
Abbiamo colto l’occasione per rivolgerle alcune domande sul suo percorso umano e professionale, partendo dagli ultimi anni nei quali si è misurata con successo con la regia di documentari con e sulle donne che hanno girato tutto il mondo.
Ed è da questa sua nuova avventura artistica che, con Yvonne Sciò, siamo partiti per poi riavvolgere le lancette dell’orologio per parlare delle sue esperienze sul piccolo e grande schermo.
Quando è maturata la decisione di passare dietro la macchina da presa?
“In generale sono sempre stata una persona abbastanza in controllo della propria vita. L’essere in balìa di qualcuno o il dovere aspettare decisioni altrui rispetto al fare o non fare qualcosa, come ad esempio il risultato di un provino quando a tempo pieno svolgevo il mestiere di attrice, mi creava moltissima insofferenza.
Ecco allora che ho scelto di maturare le mie decisioni e di fare attività in totale libertà e autonomia, con tutte le difficoltà che ciò comporta.
Yvonne Sciò, perché fare della regia un nuovo percorso professionale e umano?
Per quanto riguarda la regia, ricordo che sin da piccolissima amavo leggere libri e mi divertivo a immaginare come quelle pagine sarebbero potute diventare dei film.
Nella mia mente vedevo quelle parole prendere forma.
Con il crescere però pensavo di non essere in grado di tramutare quella capacità in un mestiere vero e proprio, motivo per cui ho soffocato l’aspirazione di diventare una regista fino a quando, quasi per caso, ho voluto raccontare la storia di una donna che ha ricoperto un ruolo molto importante nella mia vita, ossia la grandissima fotografa Roxanne Lowit.
Ho vissuto con lei tantissimi momenti quando mi veniva a trovare in Italia per trascorrere del tempo insieme o quando decideva di dedicarmi dei suoi scatti.
Lei mi ha insegnato e presentato tanto di quei mondi che altrimenti non avrei conosciuto, come ad esempio quelli degli artisti americani underground e della moda.
Quando ho scoperto della sua malattia, io ho voluto restituirle il favore raccontando il suo incredibile percorso professionale ed esistenziale, perché data la grande vicinanza e amicizia che ci legava ho ritenuto che fossi la persona giusta per farlo.
La decisione di diventare una regista non è nata a tavolino, ma è stata casuale e dettata da un desiderio e da un’esigenza del momento che hanno poi avuto un seguito visto che dopo Roxanne Lowit Magic Moments ho continuato a realizzare documentari, tra cui Seven Women, un ritratto corale in cui sette donne tra giornaliste, costumiste, attrici e non solo si confessano all’obiettivo di una macchina da presa”.
Yvonne Sciò, cosa ritiene vi sia alla base di questa scelta di diventare una regista?
“Quando mi chiedono se sono invidiosa di altre colleghe che hanno fatto più strada nel campo della recitazione o mi rimproverano di avere lasciato l’Italia per andare a fare l’attrice in America, io rispondo sempre che tutto il mio percorso di vita probabilmente è servito a gettare le basi di ciò che sono e che faccio adesso.
Ma solo negli ultimi anni me ne sono resa conto.
Avere vissuto e lavorato per tanto tempo tra Los Angeles e New York, laddove per andare avanti giravo soap opera e serie come Marshal, Crescere, che fatica! o La tata, mi è servito come bagaglio che continuo ancora oggi a portarmi dietro per raccontare storie come quelle che si vedono nei miei documentari, che hanno sempre uno sguardo rivolto oltreoceano.
Ritengo che c’è sempre una strada, ma sta a noi trovarla e imparare, passo dopo passo, a percorrerla. La mia probabilmente era quella della regia”.
È stato più difficile affrontare i pregiudizi nei confronti dell’essere una regista donna o dell’essere una regista in generale?
“Entrambi perché c’è sempre un pregiudizio enorme in figure come la mia, a maggior ragione se sei una bella donna e un personaggio pubblico che non ritengono all’altezza o capace di svolgere una determinata attività, come la regia nello specifico.
Quando ho iniziato questo cammino dietro la macchina da presa ho provato a cercare dei network e dei produttori ai quali proporre i miei progetti, ma alle migliaia di mail inviate non ha mai risposto nessuno.
A rispondermi per fortuna sono state le nuove leve che hanno creduto nelle mie idee e sono state capaci di vedere out of the box.
Perché per molti sono e resterò sempre l’attrice o la ragazza degli spot o del programma Non è la Rai, quando invece nel corso della vita si cresce, s’impara, si cambia, ci si trasforma e si può diventare anche altro.
Per cui ho dovuto affrontare i pregiudizi e continuo ancora a farlo, anche se adesso con una serie di documentari che hanno riscosso un discreto successo alle spalle vengo considerata un po’ di più.
Quelli che realizzo io sono documentari piccoli per i quali è sempre complicato tirare su il budget e avere delle occasioni di visibilità, ciononostante negli ultimi sette anni i risultati ottenuti in termini di vendite e di tante nazioni in cui le mie opere sono state viste hanno fatto ricredere un bel po’ di gente”.
Yvonne Sciò, cosa ha portato con sé in termini di insegnamenti dalle sue esperienze precedenti davanti all’obiettivo?
“Sicuramente ho conservato il gusto estetico essendo stata immortalata da tanti fotografi del calibro di Juergen Teller, Corinne Day, Mario Testino e la stessa Roxanne Lowit.
L’avere recitato per grandi registi come Nanni Loy, Carlo Verdone, Catherine Hardwicke, Pupi Avati, i fratelli Taviani, ha invece contribuito a formarmi da un punto di vista di preparazione.
Faccio l’esempio dei Taviani.
Per interpretare il personaggio di Livia in La masseria delle allodole ho dovuto studiare tantissimo, perché con tutta onestà non sapevo nulla del genocidio armeno e sono andata alla Casa Armena di Milano per documentarmi e leggere più libri possibili sulla materia.
Questa preparazione meticolosa sulla materia l’ho conservata e adesso è parte integrante del processo creativo.
Nel mio piccolo ho provato a prendere qualcosa da tutte le figure importanti con le quali ho avuto la possibilità di lavorare, che ho fatto mie e rielaborate nel momento in cui sono passata alla regia e ho maturato una mia estetica”.
Yvonne Sciò, se dovesse dipingere un autoritratto della donna e dell’artista che è adesso, cosa raffigurerebbe e in cosa pensa di essere cambiata?
“Con il passare degli anni ho imparato ad ascoltarmi di più.
La sensibilità che mi ha sempre contraddistinta non mi ha mai abbandonata, ma solo con l’avanzare dell’età ho cominciato a fare più affidamento sul mio sesto senso rispetto alle situazioni e alle persone, sia esse positive che negative.
Prima non mi davo abbastanza retta, mentre ora mi prendo il giusto tempo per riflettere e mi fido molto più di me stessa. Il che mi ha fatta accorgere a distanza di tempo di quanti treni, alcuni dei quali importantissimi, io abbia perso, un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di esperienza.
Ora raffigurerei una donna decisamente più sicura e convinta di sé e dei suoi mezzi, cosa che in passato pensavo erroneamente di essere nel momento in cui facevo affidamento solo sulla giovinezza e la bella presenza.
Eppure ero tremendamente insicura tanto nella vita privata quanto in quella pubblica. Anche con gli uomini sono stata un disastro.
Sono arrivata addirittura a rifiutare due appuntamenti con Brad Pitt perché non pensavo di essere alla sua altezza.
Non mi sentivo abbastanza bella e interessante da piacergli, quando invece era il contrario.
E ancora oggi se ci ripenso mi mordo le mani perché mi piaceva tanto, ma all’epoca il fatto che uno come lui mi invitasse ad uscire mi sembrava una follia.
Era troppo famoso e la cosa mi metteva in soggezione. Ancora oggi le mie amiche mi dicono che sono stata una scema e hanno ragione”.
Dove nascono secondo lei queste insicurezze?
“Sono cresciuta nel fermento dell’Italia degli anni Settanta e io stessa ero circondata dall’intellighenzia, con grandi artisti, intellettuali, ballerini e stilisti che frequentavano quotidianamente il salotto di casa.
Da Pavarotti a Nureyev tanto per citare qualche nome.
L’avere respirato quell’atmosfera sin da bambina da un lato mi ha arricchito, dall’altro avrà in qualche modo alimentato inconsciamente delle insicurezze che sono venute a galla con il passare del tempo.
Mia madre è stata una fotografa e giornalista molto conosciuta in quegli anni, epoca in cui le donne e le artiste come lei non erano ben viste tanto da essere considerate delle pazze.
Mi ricordo che sentivo spesso dalla gente definirla l’artista americana matta.
Il solo ascoltare quelle parole e il ripensarci mi faceva molto male.
Il che probabilmente avrà influito sul mio carattere al punto da farmi inseguire sempre il successo, ma non in termini di popolarità bensì di qualità, al fine di dimostrare agli altri quanto io valessi.
L’idea che potessero pensare la stessa cosa di me mi ha spinto a fare sempre di più e a cercare la perfezione in tutto ciò che facevo, quando questo invece creava in me delle fragilità e delle profonde insicurezze”.
Yvonne Sciò, che rapporto ha avuto e continua ad avere con la popolarità?
“Oggi vedo ragazzi e ragazze che vogliono raggiungere la popolarità velocemente e a tutti i costi e sono pronti a tutto pur di avere visibilità e il loro momento di gloria. Il che mi sembra davvero esagerato.
Quando era impossibile per me camminare per le strade a causa delle tantissime persone che mi fermavano, io ho comunque continuato a vivere la mia vita con naturalezza e a fare sempre le stesse cose, senza dare troppo peso alla popolarità.
Ciò probabilmente mi ha aiutato a vivere il successo nella giusta maniera e ad affrontare quei periodi difficili in cui il telefono non squillava e nessuno mi voleva.
In quei momenti non sono caduta in depressione e mi sono fatta forza, rimettendomi tutte le volte in gioco.
E la decisione di diventare regista è una di quelle. Il segreto è stato non cambiare, rimanere la stessa persona, frequentare le amicizie di trent’anni fa e continuare a fare quelle cose che amavo fare da piccola, come andare a comprare degli oggetti nei mercatini dell’usato.
I miei valori sono rimasti gli stessi e non ho mai sofferto della mancanza di popolarità anche quando è venuta meno”.
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