Parlare con l’aldilà è un atto d’amore

30 Maggio 2025

Intervista ad Andrea Gallozzoli, il medium che ha trasformato il dolore in un dono per gli altri

“Questa è la prima videointervista che faccio nel nuovo studio. Lo inauguro con te”. Così Andrea Gallozzoli apre il nostro incontro, con quella spontaneità e gentilezza che lo rendono immediatamente vicino, umano. Nonostante la sua capacità straordinaria – quella di entrare in connessione con l’aldilà – Andrea è tutto fuorché distante. 

Lo si percepisce subito, appena inizia a parlare. Non è solo la sua voce calma, o il modo con cui guarda l’interlocutore. C’è un’energia che vibra, un senso di accoglienza, di ascolto profondo. Andrea ha 29 anni, è originario della Romania e ha scelto di non nascondere la propria natura: quella di medium. Ma il termine è forse riduttivo. Andrea è, prima di tutto, una presenza. Una persona capace di ascoltare chi resta, ma anche chi se ne è già andato. Di offrire parole quando il dolore lascia muti.

Oggi ha una comunità ampia che lo segue sui social, attratta da quel linguaggio sospeso tra spiritualità, accoglienza e intuizione. “Non pensavo di arrivare a questo punto. Ma ho sempre avuto il coraggio di uscire allo scoperto, anche quando sembrava folle. Anche quando ero solo”.

Io lo avevo scoperto sui social, quasi per caso, e da allora la mia attenzione per il suo mondo si è fatta crescente. Era come se, attraverso i suoi contenuti, mi parlasse qualcosa di più profondo. Non solo curiosità, ma bisogno di capire. Di dare un nome a certe domande che la ragione, da sola, non riesce a contenere.


Andrea, le andrebbe di raccontarmi il primo momento in cui ha compreso di possedere una sensibilità fuori dall’ordinario, la capacità di entrare in contatto con l’aldilà?
“Ho scoperto la mia parte medianica intorno ai 5-6 anni. Venendo dalla Romania, questa sensibilità è molto radicata nella nostra cultura. Me l’ha trasmessa mia nonna, anche se ho capito solo dopo quanto profondo fosse questo legame. Crescendo, ho compreso che quello che per altri era una stranezza, era in realtà una facoltà: un canale. E che questo canale poteva essere messo al servizio degli altri”.

E c’è stato un momento, un evento, che ha segnato davvero la svolta?
Sì, assolutamente. La morte di mia madre adottiva è stato il passaggio determinante. Avevo sei anni quando se ne è andata, anche se il dolore e la consapevolezza sono arrivati in modo diverso rispetto a come accade solitamente ai bambini. Ricordo con lucidità quella mattina. Avevo la febbre, e vidi mia cugina piangere. Nessuno mi disse nulla, ma io capii. Mia madre era morta il 19 dicembre, anche se io ero convinto fosse il 22, data del funerale. Non ho mai chiesto spiegazioni: nella mia famiglia il tema della morte era un tabù. Ma io ho sempre sentito che la morte non fosse una fine, bensì un passaggio. 

Si è mai sentito solo o giudicato per questa sua sensibilità?
“Moltissime volte. Fin dall’infanzia ho percepito la difficoltà delle persone a comprendermi. Non sempre c’è spazio per chi si discosta dalla norma. Ma proprio quella solitudine, oggi, la riconosco come una forza. Mi ha insegnato a fidarmi del mio sentire, a proteggere la mia verità. Non è facile, a 29 anni, raccontare pubblicamente di essere un medium. Eppure non ho mai voluto vivere nell’ombra. Ho fatto scelte difficili, anche impopolari, ma non me ne pento. Ogni passo, anche il più doloroso, ha costruito chi sono oggi”.

Come si svolge concretamente una seduta con lei? Cosa accade prima, durante e dopo l’incontro?
“Le sedute si svolgono in modo molto semplice, direi naturale. Le persone prenotano attraverso la mia assistente, ma io preferisco non sapere nulla in anticipo. Non leggo nemmeno i messaggi che mi vengono mandati: desidero presentarmi “pulito”, senza influenze. Durante la videochiamata, spesso inizio a percepire presenze. E a quel punto inizia un flusso, quasi automatico. Le parole arrivano da sole, come se io fossi solo un tramite. Una volta concluso l’incontro, dimentico quasi tutto. Non per scelta, ma perché il contenuto non mi appartiene: è qualcosa che viene restituito a chi ne ha bisogno, non a me”.

Quali sono le richieste più frequenti che riceve dalle persone che si rivolgono a lei?
“La domanda più comune riguarda lo stato di pace della persona cara scomparsa. “Ha trovato la luce? Sta bene?” sono le frasi che sento più spesso. Talvolta uno spirito si presenta, altre volte no. Non è detto che un contatto avvenga sempre e bisogna avere l’onestà di accettarlo. Dall’altra parte, può capitare che io percepisca uno spirito anche senza essere in seduta, magari in un luogo pubblico. Ma non intervengo mai senza il giusto contesto. Il tatto, il rispetto, sono fondamentali”.

Prova mai paura?
Non nel senso comune del termine. La paura più grande che ho provato è stata in contesti fisici, non spirituali. Durante alcune indagini medianiche in luoghi abbandonati, per esempio, la paura era più legata all’imprevisto umano, non all’aldilà. Per quanto riguarda il contatto con gli spiriti, c’è un rispetto profondo. Mai terrore. Al massimo, tensione per l’importanza di trasmettere con chiarezza ciò che mi viene detto”.


Che tipo di spiriti le capita più spesso di incontrare?
“Sono spiriti che non hanno ancora raggiunto la luce, o che sono in attesa della reincarnazione. Spiriti che hanno ancora qualcosa da dire, o che cercano la pace. Alcuni non hanno accettato la propria morte, altri aspettano di essere accolti da un loro caro. Non parlo mai di religione, lascio che ognuno creda ciò che sente. Ma per me, la luce è un passaggio, un ritorno a casa. E io cerco di accompagnare, con discrezione, chi resta a intravedere quella luce”.

C’è stato un episodio in particolare che l’ha spinta a rendere pubblica questa sua attività?
Più che un episodio, una chiamata interiore. Sentivo che il mio percorso non poteva restare privato. Avevo il dovere, se così posso dire, di offrire agli altri una possibilità. Quella di credere che esiste altro, oltre la morte. Che la comunicazione non si interrompe del tutto. Oggi condivido molte storie anche attraverso il mio canale YouTube. Mi dicono che ricordo un po’ Maria De Filippi, per il modo in cui le storie prendono forma, diventano carne. Ma ciò che conta è il messaggio: che ogni racconto può portare conforto”.

Che rapporto ha con la religione e con lo scetticismo che spesso accompagna il suo lavoro?
Con la religione ho un rapporto di rispetto, ma di distacco. La medianità, per me, è qualcosa che va oltre le dottrine. Quanto allo scetticismo, lo comprendo. Siamo in un tempo in cui credere è difficile, a volte rischioso. Ma io non cerco di convincere nessuno. Chi si rivolge a me lo fa perché sente, non perché ha bisogno di prove”.

Come immagina il futuro della sua attività? Si vede ancora in questo ruolo?
“Credo che la medianità evolverà con me. Non so se fra dieci anni sarò ancora in questo studio, ma so che continuerò a cercare un modo per essere utile. Le anime, in fondo, ci accompagnano sempre. E io, se posso, continuerò ad ascoltarle”.

Se potesse rivolgersi oggi al bambino che è stato, cosa gli direbbe?
Gli direi di credere. Di non cercare l’approvazione di tutti. Di non avere paura di essere diverso. Gli direi che la vita lo metterà alla prova, ma che ogni esperienza, anche la più dolorosa, avrà un senso. E che alla fine, quel dolore diventerà forza, amore, connessione.

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