Alex Bellini: il viaggio più bello è quello che facciamo dentro di noi

20 Maggio 2025


Bufere di neve e di sabbia, vento glaciale e caldo torrido, tempeste e onde anomale, incidenti, deserti e montagne, oceani e ghiacciai, temperature in picchiata, pericoli costanti e condizioni meteorologiche e logistiche proibitive, ma anche panorami da mozzare il fiato in grado di regalare momenti magici e irripetibili. Sono questi gli estremi e i luoghi che Alex Bellini ha dovuto affrontare da quando ha deciso di diventare uno dei più importanti esploratori al mondo. Da anni è anche un attivista ambientale e con il progetto 10 Rivers 1 Ocean si è posto l’obiettivo di navigare i dieci fiumi più inquinati del pianeta per sensibilizzare l’opinione pubblica e la gente sul problema dell’inquinamento globale. Noto per aver attraversato a remi in solitaria l’Oceano Atlantico e Pacifico, l’esploratore di Aprica è stato protagonista alle diverse latitudini di una serie di straordinarie imprese come il cammino in Alaska spingendo una slitta per un totale di 2.000 chilometri, la corsa di 5300 km negli Stati Uniti da Los Angeles a New York in 70 giorni e l’attraversata con sci e slitta in 15 giorni del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio d’Europa situato in Islanda. Il racconto di quest’ultima incredibile spedizione ha preso forma e sostanza audiovisiva in un emozionante e spettacolare documentario da lui co-diretto con Francesco Clerici dal titolo Beyond – Lettera a chi non è andato oltre, che ha avuto la sua anteprima mondiale nella prestigiosa cornice della del 73esima edizione del Trento Film Festival. Ed è nel corso della storica kermesse dedicata al cinema e alla letteratura di montagna che lo abbiamo incontrato, cogliendo l’occasione per ripercorrere con lui la genesi del film e le tappe più significative della sua carriera.

Quando e perché nasce il documentario Beyond – Lettera a chi non è andato oltre, nel quale viene raccontata la sua spedizione sul ghiacciaio Vatnajökull?
Beyond nasce da un’idea di Francesca Urso che oltre ad essere la mia business partner è anche mia moglie, con la quale nel corso degli ultimi anni c’eravamo spesso confrontati sul senso dell’avventura e dell’esplorazione e di come avessimo potuto affrontarlo in una forma diversa da quelle utilizzate fino a quel momento, ossia attività digital o libri. Quella forma era il documentario appunto. Con e attraverso di essa abbiamo voluto narrare una storia che non era stata ancora raccontata nella sua interezza e nella sua vera natura. Mi riferisco alla spedizione sul Vatnajökull, un ghiacciaio in ritirata situato nell’Islanda sudorientale. Si trattava di piccola avventura nella quale però si erano condensati alcuni elementi secondo noi cruciali, che potevano essere utilizzati a nostro favore per approfondire la complessità di un’esplorazione e il senso stesso dell’esplorare. Ad accompagnarmi in quel primo viaggio c’era un fotografo al quale spettava il compito di aiutarmi a documentare gli ultimi anni della fase di fusione di quel ghiacciaio destinato a scomparire. Ci fu purtroppo un incidente che lo convinse ad abbandonare l’incarico e quindi venendo a mancare il suo appoggio cadevano quelli che erano gli intenti della spedizione. All’epoca ricordo che ho vissuto molto male, quasi come un tradimento, quella decisione. Nel corso del tempo però ho iniziato a riflettere sul fatto che forse quella persona non si meritava questa mia reazione, perché in quel momento aveva risposto a dei bisogni base dell’essere umano, ossia la preservazione, la tutela della sua incolumità, quindi anche la relazione con la paura. Di conseguenza ho voluto leggere con altri occhi quella decisione e dare un’altra chance a quell’esperienza, perché a mio e nostro avviso c’era rimasto ancora qualcosa di irrisolto. Maturata questa consapevolezza abbiamo deciso di rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle a disposizione”.

Come si è sviluppato il suo processo creativo?
Per poterlo fare occorreva prendersi del tempo e creare un gruppo di persone che potesse analizzare quella situazione dando forma e sostanza a un contenuto audiovisivo fruibile anche da un pubblico che magari di mestiere fa altro e non s’avventurerà mai in una landa gelata. Il tutto con la speranza di consegnare alle future generazioni una specie di testamento del e sul perché l’uomo esplora e perché ogni tanto decide di superare o no un limite. A questo gruppo di lavoro si è poi unito il regista Francesco Clerici, che avevo conosciuto in un festival in Corea del Sud, perché io chiaramente non avevo né le competenze né lo spessore artistico per trasformare in immagini ed emozioni quello che avevo vissuto. Con lui abbiamo scritto i testi a messo assieme il piccolo tesoretto di immagini che avevo raccolto in quella spedizione con delle GoPro, integrandolo con altre riprese realizzate ad hoc per fare in modo che il risultato non fosse solamente la cronaca dei fatti, ma che potesse portare lo spettatore ad allinearsi a dei pensieri esistenziali. L’intento era quello di restituire una visione un po’ onirica e non necessariamente legata ai singoli eventi, motivo per cui abbiamo realizzato delle riprese con il drone sulla costa del sud dell’Islanda e sui margini del ghiacciaio Vatnajökull. Dal montaggio di questi diversi materiali è nato il documentario”.

Nella spedizione sul Vatnajökull è sopravvissuto a un grave incidente. Che ricordi ha di quei momenti?
Non ho la piena percezione della dilatazione o della compressione del tempo di quegli attimi, anche se forse in un certo senso sì, perché dall’incidente al momento in cui sono risalito dal crepaccio mi era sembrato fossero trascorse tre ore quando in realtà il tempo era esattamente la metà. La mia è stata una caduta verticale, ma inizialmente non sono finito sul fondo. Poi dopo qualche secondo si è staccata una piccola slavina che mi ha trascinato giù nel cratere. Il mio primo pensiero, che era veramente una forma di angoscia che non mi dava pace, non era però tanto quello di salvarmi, perché sapevo a quel punto che ce l’avrei potuta fare dato che ero precedentemente scampato da solo in quella stessa giornata ad altre situazioni rischiose, bensì era rivolto al fotografo che mi accompagnava in quella spedizione. La mia più grande preoccupazione era quella che fosse caduto anche lui nel crepaccio, che si fosse fatto male o nel peggiore dei casi avesse perso la vita. Per fortuna non gli era accaduto nulla di grave. Ha attivato l’inReach, un dispositivo satellitare per la richiesta di soccorso. Richiesta che è giunta a un centro in Germania che a sua volta ha comunicato con mia moglie che da anni si occupa proprio della logistica e del servizio di search and rescue nelle mie spedizioni. Il mio team lo ha assistito in attesa che arrivassero i soccorsi. Poi, quando sono arrivati sul posto, nel frattempo io ero riuscito a riemergere dal cratere con le mie forze. Lì mi ha comunicato la volontà di tornare indietro, perché mi credeva un pazzo a voler proseguire. Io invece ero più sicuro che mai di voler andare avanti, perché pensavo che l’incidente fosse stato causato da una mia disattenzione e non da altro. Nel suo caso la paura e l’impatto che l’incidente aveva avuto su di lui dal punto di vista psicologico è stato più forte, tanto da convincerlo ad abbandonare la spedizione”.

A questo punto viene da chiederle qual è il suo rapporto con la paura?
Con la paura ho una relazione talvolta serena e altre volte invece astiosa, perché la paura è comunque un’emozione che prevale in una spedizione e che se da una parte mi assicura di fare sempre il ritorno a casa, dall’altra è un ostacolo al perseguimento dei sogni più ambiziosi”.

Per chi come lei è abituato a spingersi oltre i limiti e a rischiare la vita per compiere delle spedizioni in luoghi pericolosi quali sono le implicazioni emotive e affettive? Quando si è cosciente che si sta andando in posti dai quali si può anche non fare ritorno, il pensiero va o no a chi resta a casa ad attenderla come una moglie, dei figli o dei familiari?
La responsabilità la vivo molto, anzi ce l’ho ben presente. Ed è per questa ragione che il lavoro nostro, mio, di mia moglie e del team in generale, prima di partire, è proprio quello di escludere nella maniera più realistica possibile, nel senso che non lo possiamo totalmente ridurre a zero, il pericolo a cui sono esposto ogni volta che affronto una spedizione. Il pericolo può essere mitigato con lo studio, la preparazione, la definizione di un piano di navigazione, oltre che con l’ausilio della tecnologia: dal GPS alla bussola, passando per quei dispositivi satellitari come l’inReach che permettono in maniera reattiva di rispondere agli incidenti. In primis io che per mestiere faccio l’esploratore non voglio perdere la vita, anzi sono così tanto attaccato ad essa che mi assicuro di avere sempre dei piani B, C e D nel momento in cui succede un imprevisto. È chiaro che non posso escludere totalmente la possibilità che un incidente possa accadere, perché esiste l’imprevedibile. Cioè sarebbe impossibile prevedere qualcosa che non posso prevedere. La caduta nel crepaccio durante la spedizione sul Vatnajökull è stata quasi imprevedibile perché ho fatto di tutto per rimanere lontano dal cratere, ma la condizione di visibilità pari a zero, in cui non vedevo oltre la punta del mio sci, ha contribuito a provocare l’incidente. In quel caso ho fatto un errore di navigazione, rimanendo troppo a ridosso del bordo, perché è vero che avevo le mappe geografiche, ma non avevo un riscontro diretto col mio GPS di quanto vicino fossi al cratere. Ho fatto di tutto per evitare di cadere, però alla fine sono caduto.

Non lo ritiene un atto egoistico?
In molti pensano che il mio partire e affrontare dei rischi sia un atto egoistico. È una visione che accetto, ma non condivido, perché tutti facciamo il mestiere che facciamo per soddisfare un bisogno, indipendentemente da quale e da quali rischi si corrono. Io sono un esploratore e sento che la mia natura è esplorare, è compiere viaggi avventurosi dall’esito incerto, spesso in ambienti ostili, talvolta, anzi per lo più in solitaria, altre volte accompagnato da qualcuno che può produrre o aiutarmi a produrre un contenuto da diffondere poi sul mercato letterario e dell’audiovisivo. Al tempo stesso sono un padre e un marito e il pensiero alla mia famiglia non mi abbandona mai. Ed è questo pensiero che mi porta ad essere molto cauto nel correre dei rischi, però nel momento in cui l’imprevisto succede, allora si attiva un meccanismo di sopravvivenza. In quel momento lì non penso al fatto che sono venuto e sto venendo meno a un impegno che mi sono preso con mia moglie e i miei figli di onorare il matrimonio e la famiglia con tutti i mezzi. In quel momento si attiva un meccanismo di sopravvivenza che mi porta razionalmente, in una maniera quasi matematica, a capire che cosa fare per uscire da una data situazione così da salvarmi e tornare da loro. Si attiva dentro un istinto che ci porta a muoverci, a seguir delle regole della natura, non culturali, che forse abbiamo perso un po’ come esseri umani, ma che ci ritornano. È un po’ come quando impari ad andare in bicicletta e poi non te ne dimentichi più”.

In tutti questi anni di esplorazione cosa pensa di aver trovato che non pensava di trovare o del quale venire a conoscenza di sé?
La prima cosa che mi viene in mente, adesso che ne parliamo, è che in passato avevo un’idea monolitica di me. Quindi un blocco unico abbastanza regolare di caratteristiche che messe assieme componevano la mia personalità. Quello che ho scoperto nel tempo, ma sicuramente la spedizione sul Vatnajökull me l’ha dimostrato, è che sono in realtà molto più complesso di così. Sono un esploratore, quindi da me le persone si aspettano due o tre cose: una che abbia un coraggio da vendere, due che sia disposto a correre tutti i rischi, tre che ci sia dentro di me un sistema di navigazione che mi porta ad andare avanti a tutti i costi, con tenacia e perseveranza. Quanto più vivo, quante più esperienze faccio, tanto più mi rendo conto che sono questo, ma sono anche l’esatto contrario. E allora ci si scontra con le certezze, i temi e anche con i sistemi binari in generale. Il ché vuol dire essere bianco e contemporaneamente essere anche un po’ nero. Avere coraggio e contemporaneamente anche avere tanta paura. Apparentemente è difficile fare coesistere le due cose, ma invece è quello che assicura la sopravvivenza, è quello che assicura all’essere umano di riuscire sintonizzarsi con l’obiettivo da perseguire, ma anche con i rischi che si possono correre. Allo stesso modo vivo con grande serenità l’isolamento e la solitudine, ma quando poi mi trovo a vivere per troppo tempo da solo mi si spezza il cuore e ho bisogno di ricreare e ritrovare relazioni sincere, relazioni solide con le persone. Quindi non è vero che sono un essere umano solitario. Ecco allora che si va a comporre la figura di un uomo che è tutto e il contrario di tutto, ed è difficile oggi come oggi, perché c’è la tentazione a semplificare molto le cose, a riuscire a far coesistere caratteristiche così diverse nella stessa persona. Questo è quello che ho scoperto ed è quello che forse più mi appassiona oggi come oggi, a investigare ancora di più. E consiglio le altre persone a fare altrettanto, a sfuggire un po’ dalle etichette e dagli schemi mentali in cui tutti siamo più o meno costretti, a superare anche questa idea del dualismo buono-cattivo, giusto-sbagliato”.

A tal proposito esistono tutta una serie di stereotipi e cliché che alimentano l’ immaginario rispetto alla figura dell’esploratore e dell’avventuriero. Personalmente li asseconda o li combatte?
Io li combatto con l’esperienza, i racconti, con il non risparmiarmi mai di fronte all’ennesima opportunità di raccontare la propria storia e forse mettere sotto la giusta luce quegli aspetti che si è soliti trascurare e omettere quando si dipinge la figura dell’esploratore o dell’avventuriero. Per mia fortuna mi è capitato in varie occasioni di vivere momenti di crisi, sconforto, di grande paura, di terrore, di panico e di averli anche potuti riprendere. Oggi li posso documentare e raccontare anche con i video e non più solo con un’elaborazione di parole. Oggi posso catturare l’attenzione delle persone anche attraverso le immagini, per mostrare a chi guarda la realtà dei fatti, che un avventuriero, un esploratore è fatto anche di un animo, di uno spirito che sembra, ripeto, di pietra inscalfibile, ma che più verosimilmente è di cristallo, un elemento delicatissimo che per un niente può andare andare in mille pezzi. Questo non vuol dire che non si possa ricostruire magari anche più forte, resiliente e antifragibile di prima. L’idea del rompersi per ricostruirsi, trasformarsi e maturare in un’altra forma a me piace tantissimo”.

Nella sua carriera ha attraversato oceani e scalato montagne e ghiacciai, ma quanto di quello che ha imparato e capito di sé e di ciò che la circonda è riuscito a mettere in pratica nella vita di tutti i giorni e nella società?
La cosa più difficile è riuscire a trasferire questo approccio molto pragmatico, separato dalla parte emotiva, nella vita reale. È più semplice, passami il termine, essere degli eroi durante un’impresa esplorativa che esserlo nella vita di tutti i giorni, dove è più facile farsi prendere dallo sconforto, dalla voglia di scappare, anche perché te lo puoi permettere. Mentre nel Pacifico o sul Vatnajökull non potevo scappare, e dovevo trovare internamente delle risorse per gestire le emozioni di quei momenti, nella vita reale ci sono tante possibilità aggiuntive che spesso interferiscono con le lezioni apprese durante le varie spedizioni. L’ho fatta lunga per dire che poi alla fine ognuno è stimolo di se stesso. Io sono, la mia parte esplorativa, il mio Alex Bellini esploratore diventa stimolo e consigliere per la mia parte Alex Bellini, titolare di partita IVA che risiede in via…”.


Ma queste sfide che lei affronta ogni volta con se stesso, con il mondo che la circonda, sono anche delle fughe dalla società? Inconsciamente le vive anche come un modo per allontanarsi da quelli che sono i problemi della vita quotidiana?
Questa cosa della fuga o della rincorsa mi bracca, mi insegue e mi stimola da sempre. Mi stimola da quasi trent’anni. Io ho cominciato la vita di esploratore e prima di avventuriero perché avevo il bisogno di scappare da una situazione familiare che mi provocava molto dolore. Avevo perso mia madre nel 1999 e da lì a pochi anni ho iniziato a provare un senso di profonda insofferenza. Volevo cambiare vita anche perché quella che mi stavo creando con lo studio all’università non mi dava gioia, non mi dava emozione. Vivevo nella tirannia dell’aspettativa delle altre persone. Il mio primo viaggio in Alaska è stato proprio un volere scappare da tutto e tutti, un volermi liberare dalle catene che mi tenevano ancorato a un’esistenza che non volevo e nel quale mi ero ritrovato. Volevo andare a vedere che colore avesse il cielo al di là dei vincoli che mi trattenevano nel paese della Valtellina dove ero nato e cresciuto. Quindi la mia attività di esploratore è nata proprio da un bisogno di scappare e di fuga, ma non dagli obblighi o dagli impegni morali verso la mia famiglia o verso la società. Piuttosto era il desiderio e l’esigenza di andare a cercare il mio posto nel mondo e per farlo ho dovuto voltare la schiena a casa mia e alla mia zona di comfort. Oggi invece vivo la fuga che mi ha fatto fare tanti chilometri e tante belle avventure come la spinta a volermi allontanare da tutto ciò che conosco per guardare il mondo con occhi diversi e da un’altra prospettiva. In questo c’è anche l’interpretare l’esplorazione un po’ come la volontà di contribuire ad accrescere la sensibilità ecologica mia e delle altre persone attraverso quello che faccio. Le azioni di questi ultimi sei o sette anni hanno tutti quanti caratteri divulgativi, ossia attraverso l’esplorazione io spero di poter far compiere alle persone che mi vedono, mi sentono, mi ascoltano, mi guardano, un viaggio esplorativo che siamo tutti quanti chiamati a fare, non solo esplorativo del mondo che ci circonda ma esplorativo di noi stessi. L’esplorazione, e torno a quanto abbiamo detto poco fa, è sì un viaggio geografico e fisico, ma è anche un tour introspettivo che mi e ci porta a misurarci tutte le volte con i confini e i limiti. E questo mi sembra più associabile a un rincorrere piuttosto che a un campare”.

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